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A cura di Magda Minotti

Ricette di Matteo Depetris chef del ristorante “Ai nove castelli”

 

RICETTE DEL MESE

 

Zenâr cu la polente…

 

 

La tradizione della polenta, la farinata, la   pultes dei romani di cui abbiamo testimonianza nel “De re coquinaria” di Apicio, polenta di farina di frumento o d’insipida farina di farro (spelta) cotta in acqua e sale, con contorni vari, ricordata anche da Plauto:

« …pulte, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum»,

ha radici lontanissime, forse addirittura preistoriche.
Anche in Friuli, da sempre, la polenta si faceva con farina di cereali minori quali il farro, la saggina o il grano saraceno…
La polenta di mais, così come la intendiamo, entrò nelle nostre abitudini alimentari dopo la scoperta dell’America.
E la blave, quasi per magia, si trasformò in un sole fumante che rallegrava e riscaldava le tavole invernali divenendo per tutti ed ancor oggi, la polenta
Polenta, la “nuova” pultes, di farina di mais, quella che siamo convinti di aver avuto da sempre sulle nostre tavole - come del resto per i fagioli e per le patate –e che, invece, mangiamo solo dalla seconda metà del XVII secolo…
Il granoturco, cereale dell’America centrale portato nel nostro vecchio continente da Cristoforo Colombo nel 1498, a causa delle “difficoltà” legate alla sua coltura fu coltivato senza successo e, quindi, dimenticato.
Nell’impero Ottomano e nei vicini paesi non cristiani la sua coltivazione, invece, ebbe ottimi risultati e, quando i commercianti della Serenissima lo portarono via mare a Venezia, lo chiamarono, poiché si usava definire “turco” tutto ciò che proveniva da quelle zone, grano turco.
Il primo documento che ne parli, come riportato da Tito Maniacco nel suo stupendo libro “La patata non è un fiore”, è un verbale redatto dallo scrivano Pieri Sottoriva, nel fondaco comunale per la raccolta dei grani, istituito fin dal 1505 dal Comune d’Udine, sopra le macellerie in Via Rialto:
“…sabbato 17 settembre 1622, Battista Peruzzo, et Giacomo della Bianca misuratori pubblici hanno riferito che le biade sono state venduti hoggi in piazza comunemente ai prezzi infrascritti e cioè: frumento staia  1 per lire 17 soldi 10, …. Fava staia 1 per lire 5 e soldi 15, e sorgo turco a lire 7 per staia”.
Commento del verbalizzante…:
Questo sorgo turco non durerà a lungo.Segniamolo perché è da segnare.                    No, non durerà!”
Qualche decennio dopo -chi lo avrebbe immaginato!-, la blave era già considerata un elemento essenziale dell’alimentazione e della vita del popolo friulano e, nei libri dei camerari della pieve di San Paolo nel territorio di Mortegliano, la blave, il sorgoturco, appare nel rendiconto degli affitti dell’anno 1646.
Forse da qui: ”…la blave di Mortean…
E questo sorgo turco che non durerà a lungo…No, non durerà!”, ne ha fatta di strada, divenendo, nel passato non molto lontano,   il solo ed unico cibo quotidiano dalla gente povera e dei contadini che, per  mancanza di vitamina PP, si ammalavano di pellagra  …
Quando se ne  scoprì la causa, si cominciò ad accompagnare la polenta con verdure poco cotte e, dove possibile, cun un pôc di bacalà o cui uciei o cuntune sclese di formadi
Sapori e odori del passato, questi,  che ora sono una leccornia e la polenta, il “sole” nelle case, è sempre una benedizione della tavola e del palato, anche quello più raffinato.
Resta vivo il ricordo della raccolta e  dello  scartocciare delle pannocchie,  perlopiù nella stalla, uno dei luoghi “privilegiati” dalle società contadine…
Chi non ricorda le  trecce di mais, lis restis, appese ai poggioli sempre rivolti a sud, delle case friulane,  dove si facevano seccare  garantendo, così,  cibo par i cristians e par  lis bestis. I grani ottenuti con lo sgranare delle pannocchie,  erano macinati solo nella  quantità che si presumeva potesse essere consumata come  polenta,  in poco più di un mese. La farina, infatti, si conservava una quarantina di giorni al massimo e, con i tempi che correvano, ogni spreco di cibo era inammissibile.
I grani più brutti, piccoli o comunque difettosi, servivano a dare un pasto migliore alle galline, ad ingrassare le oche o a dare maggior consistenza e sapore alle carni del maiale.
De blave, come  dal purcit, non si buttava via nulla e  in  molte famiglie, si usavano i cartocci delle pannocchie anche per cambiare, ogni autunno, l’interno  dei materassi a righe bianche e blu… 
Le canne, addirittura, erano usate come ferri da calza,  le foglie come surrogato del tabacco e, in mancanza delle cartine da sigaretta,  si usavano  i tutoli per farne pipe.
Non di rado si seminava la blave tai strops,  per permettere agli ortaggi rampicanti come i fasûi,  di avere un sostegno. 

Io, naturalmente, preferisco usare il mais in cucina.
A proposito, avete mai pensato di aggiungere alla polenta, a cottura ultimata, del salame sbriciolato e dei cubetti di latteria?

Tra le mille ricette, vi vorrei consigliare un soufflé di polenta con lo stracchino

Ecco gli ingredienti:

 300 gr. di latte;
200 gr. d’acqua;
80 gr. di burro;
100 gr. di farina doppio 00;
150 gr. di farina gialla;
400 gr. di stracchino;
9 uova;
sale;
pepe.

Se volete adagiare poi il soufflé su una salsa saporita, vi serviranno ancora 200 grammi di stracchino, 200 di panna, 1 tuorlo d’uovo e il solito sale e pepe.

Una preparazione non semplicissima, ma di sicuro effetto.

Il protagonista è chiaramente lo stracchino sia nell’impasto, sia nella salsa d’accompagnamento, come attrice, invece, è presente la polenta che dona struttura e colore al nostro piatto.
Per iniziare, fate bollire l’acqua assieme al burro, versatevi poi le due farine precedentemente mescolate e setacciate, rimestandole vigorosamente con la frusta.
Lasciamole cuocere per 20 minuti circa e poi, adagio, adagio, aggiungiamo (uno per volta) i tuorli d’uovo.
A parte montiamo le chiare delle uova che poi aggiungeremo all’impasto delicatamente, quasi carezzandolo con il mestolo mosso dall’alto verso il basso.
Imburriamo e infariniamo gli stampini per la crema al caramello, che riempiremo per ¾, alternando una perla di stracchino ad un po’ d’impasto.
Far dorare in forno caldo (180°) per circa un quarto d’ora.
Nel frattempo prepareremo la salsa sciogliendo a fuoco dolce, assieme alla panna, lo stracchino tagliato a pezzi.
Frulleremo poi il composto assieme ai tuorli d’uovo e riempiremo i fondi dei piatti con questa delicata crema, sopra la quale adageremo i nostri soufflé appena tolti dallo stampino.
Per decorare il piatto faremo cadere, come per sbaglio, delle piccole gocce colorate (potrebbero essere delle gocce di pomodori in salsa o del sugo d’arrosto, o perché no, una crema di piselli o di carote!).
A questo punto “passiamo” uno stuzzicadenti attraverso le gocce che, mescolandosi, diventeranno raffinati e preziosi arabeschi… ma…, mi raccomando, non raccontate come li avete realizzati!