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di Magda Minotti

Magda Minotti        

 

MAGGIO DEI NONNI

…..
“ Maj ti saludi cul sprofùm ch’ e met
fûr la natùre che cun te si svèe,
cul butulùt ch’al va formànt la fuèe
e la rosùte in miez come un mazzét”
Piani P. “ Maggio d’amore”

 

MAI

I disvuèdi a mil lis rôsis
da mê cosse cence fons
e , fra miec, cjarièsis ròssis
sparcs, lidrìc e cesarons…

Maggio, mese  della  primavera in tutta la  sua  meravigliosa pienezza.
Era salutato innalzando  il   mai  (l’albero di maggio) in mezzo alla piazza del paese, collocando frasche anch’esse simboliche nelle vie  o davanti la casa delle ragazze.
Si propiziava, così, la fecondità e la  nuova vita alla gente, al bestiame e ai campi.
Maggio: celebrazione dell’ Amore.

“ Plàntin il mai i zovanoz de vile:
po par mostràj l’ amôr a la pulgete,
tegnìn consei pe solite scjarnete”
Piani P. “ Maggio d’amore”



Maggio: mês de Madone  e dal Rosari , mês dai mus ,mês des rosis ,
Maggio:  mês des Rogazions e de Sense .....
Maggio: mês dai cavalîrs....  

In Friuli, infatti, era molto diffuso l’allevamento del baco da seta (bombix mori o sericaria mori) che era stato introdotto  in Europa verso il 550 da due  monaci dell’ordine di san Basilio.
Le uova del prezioso animale furono nascoste  nel cavo di canne di bambù che fungevano da bastoni da viaggio e  portate a Costantinopoli. Iniziò così la coltura del baco e la produzione della seta  in Occidente.  Il gelso fu coltivato a questo scopo nella Morea (così era chiamata, durante il medioevo, la  penisola del Peloponneso) e da lì,  il baco fu portato in Sicilia da alcuni  prigionieri greci.
L’allevamento  del cavalîr si diffuse in tutta Italia,  trovando  grandissimo incremento nei territori della Serenissima Repubblica di Venezia.
Verso la fine del 1600,  per merito dello scienziato ed economista Antonio Zanon , il Friuli divenne terra di coltivazione del gelso  nonché  il maggiore   produttore di seta d’Europa.
Ancor oggi il gelso, il morâr (che prende nome, appunto, dalla regione della  Morea),  caratterizza il paesaggio delle  nostre campagne di cui ne  delimitava le proprietà. Popesso, pittore morto prematuramente pochi anni fa, ha “fissato” nei suoi quadri con nostalgica armonia di spazi e colori, questi alberi nella loro essenza invernale.
“Scheletri vivi” nella piatta campagna, rami sottili che sembrano dita  protese verso l’immensità del cielo: i morârs.
Alcuni esemplari di questi alberi   ai quali  si  mantiene ancora  la tipica  forma a “pennello rovesciato”, si trovano nei cortili delle vecchie case contadine.
I gelsi fatti crescere  tal curtîl, avevano una funzione ben precisa: erano la riserva  di foglie nel caso si fosse impossibilitati ad andare tai cjamps a prendere quelle necessarie al pasto serale dei bachi. ,
E i morârs  dei cortili, inoltre,  servivano da rifugio notturno alle galline che si appollaiavano tra la frescura della loro chioma,  salendovi  per mezzo di pioli di fortuna, fissati al tronco.
 lis bilitis (le rosse donnole), non le avrebbero prese facilmente...
L’importante  coltura del baco, il cavalîr, scandiva maggio, mese deputato alla vita.
Il cavalîr, probabilmente, prende questo nome dal fatto che  nelle fredde case dei contadini, l’unica stanza con la temperatura costante, era quella dei bachi che mangiavano continuamente e per di più…a ufo!
Meritavano, dunque,  cure particolari che alludevano al doppio senso del vocabolo:

“I cavalîrs a àn il non cun se”.

Con  la testimonianza vivissima che mi fece tanto tempo fa, il mio compianto amico Giuliano Zucchiatti di Pradamano, rituffiamoci nel maggio friulano dei bei tempi andati:

«Il  seme  dei bachi veniva prenotato  ad once (25 grammi circa)  rapportandolo al numero dei gelsi posseduti (per  un’oncia, sarebbero state necessarie le foglie di  una trentina di gelsi).
Per ogni oncia  si stimava di poter ottenere 70-80 chilogrammi di bozzoli,  la galete  da conferire all’essiccatoio  cooperativa- bozzoli dove era  avvenuta l’incubazione del “seme” distribuito su tutto il territorio della regione.
L’epoca di tale operazione dipendeva dall’andamento climatico delle primavera, ossia dallo sviluppo delle foglie di gelso che  i bachi mangiavano voracemente  e continuamente, sin dal loro primo momento di vita.
Mê agne Bete, per fare   invidia  alle  famiglie del vicinato, ordinava   il  quantitativo (che era di dominio pubblico)  di seme, ma aveva la furbizia di far nascere una piccola quantità di bachi in proprio.
Teneva, infatti, dei bozzoli  di cui faceva accoppiare le farfalle.
Ne conservava le uova che, al momento giusto ed avvolte in un panno, venivano incubate di giorno sul petto e, di notte, nel tepore  delle coltri del letto.
Tutto ciò per ben figurare al momento del conferimento  dei bozzoli la cui quantità, in rapporto alle once di seme acquistato,  risultava superiore alla media....
Erano piccole bugie che portavano a grandi momenti di gloria, legati alla  presunta   capacità di savê fâ ben...
I bachi facevano quattro  mute (a duarmin  de prime, de seconde e de tierce te grisiolis - i graticci-) e ad ognuna d’esse, per toglierli dal letto (cagulis e fueis secjis), veniva usata della carta forata con buchi in   crescendo,   secondo     la  grandezza  dai   cavalîrs .
Nel  loro  primo   stadio   di  crescita,   essi stavano  in  cucina  sul    grisulin, mentre,   nella seconda e  terza fase  una  stanza   liberata  per    l’occasione, li ospitava a temperatura  rigorosamente costante di 18°, su lis grisiolis.
Nella prima fase di crescita dei bachi, le  tenere foglie del gelso venivano tagliate con una taglierina.
Successivamente si somministravano  intere  per  arrivare, poi, ai rametti.
Dopo la terza muta, la jevade,  i bachi ormai grossi  e quasi pronti alla loro metamorfosi, venivano portati nei granai  preventivamente  liberati dalle granaglie e puliti con accuratezza.
Gli eventuali buchi des suriis o des pantianis ,erano otturati con un impasto di calce morta e buiacis di vacje  e i vetri  rotti, venivano   aggiustati con fogli di carta attaccati  cu la  cole di farine di flôr.
In questo stadio della vita, i cavalîrs venivano messi  sul pavimento o appesi sui filons.
I bachi divenuti grossi e voracissimi, esigevano foglie fresche ogni tre, quattro ore che essi mangiavano  ad una temperatura costante di 18- 20 gradi.
Se questa si fosse abbassata, i bachi avrebbero mangiato di meno e, se la foglia fosse stata bagnata o  se ci fosse stato un caldo umido, i cavalîrs a levin in vacje... diventando gonfi, gialli e  putrefacevano  infettando gli altri.
Se il locale non era ben disinfettato, i bachi andavano in stuc (la pupa moriva nel bozzolo, deprezzandolo).
Le attività relative alla coltura del baco, coinvolgevano  tutta la famiglia che, come abbiamo già visto, lo allevava  in rapporto ai gelsi posseduti.
Grandi e piccini dovevano collaborare  a questo scopo poiché gli adulti, oberati dal lavoro nei campi  dovevano “adeguarsi”  anche alle necessità vitali dai cavalîrs.
I fruts, anche se a volte per gioco,  raccogliendo lis fueis, tagliandole,  offrendole in pasto, davano un grande aiuto ai familiari  tanto impegnati.
Mi ricordo l’ultimo pasto della  faticosa giornata, verso le dieci  di sera....
Vedo ancora con nitidezza ogni componente della famiglia  con il suo fascio di foglie, lasciare l’aia e raggiungere il granaio, dove veniva posato delicatamente sui filons.
Poi, finalmente, a durmî!
Questo sonno ristoratore era necessario  per la routine quotidiana ma, soprattutto, per la necessità di guardare a vista  i bachi  per scoprire il primo di loro che, rifiutandosi di mangiare alzando la testa (a son sul volt de sede), segnava il momento di mettere a filâ.
Per avere la certezza di essere  nei tempi giusti, il cavalîr veniva  guardato in controluce e, se il tratto sottogola era trasparente  e giallo, voleva dire che la  sede era pronta  ed i bachi avevano bisogno di salire  tai riçs fatti col seleâr (paglia lunga della segala – siale- messa a ventaglio).
I bachi ormai pieni di seta, salivano sui “ricci” e iniziavano a fare  il bozzolo (filâ ).
Questa operazione (sierâ i cavalîrs) era pubblicizzata al massimo, per fare invidia a coloro che  “erano in ritardo” e che passavano ancora  con le foglie di gelso sul carro.
Dopo sette/otto giorni di attesa,  ecco i bozzoli completati che si dovevano  togliere dal “letto” e mondarli de  spelaie.
Si procedeva poi, alla scelta dei più  belli (chei  di 1ˆ cualitât), dividendoli da quelli non completi (falope o bavele), oppure  dai  doplons o dai   maglâts....
Il giorno del conferimento all’essiccatoio dei bozzoli, messi  in sacchi  su le briscje o su la carete   guidata dal capofamiglia e dai  fruts più grandicelli, era molto importante.
Arrivati all’ essiccatoio, i sacchi venivano pesati con la stadera.
Il responsabile li  faceva  aprire  da lis  bigatinis ( filandaie) e controllava il contenuto.
Il peso ufficiale e la qualità del prodotto erano commentati dai presenti:
“Però e a butât ben: plui di un cuintâl par once!
 Brave Dele!
 No savevin  dal truc de semence in plui fate nassi tal pet e tal jet  di mê agne.
Per noi bambini la sosta dal fruttivendolo col cartoccio personale di ciliegie, era il massimo della gratificazione per il lavoro prestato nel mese di maggio!
Oltre l’incidenza diretta sull’economia della famiglia, il cavalîr dava lavoro a centinaia di ragazze nelle filande dove veniva fatta la prima operazione di svolgere il filo di seta dal bozzolo.
Un lavoro faticosissimo che obbligava   a  stare  tutto  il  giorno  in  ambienti  caldo-umidi  e con le mani sempre nell’acqua calda.
Ciò che mi chiedo è questo: perché, non appena la situazione socio- economica del nostro Friuli è cambiata, la prima “vittima” è stato il cavalîr?
Credo sia necessario evidenziare che la coltura del baco aveva due aspetti, uno positivo ed uno negativo. Il primo evidenziava il minimo di spesa per l’allevamento di questo insetto: le foglie erano date dai gelsi che servivano anche al riscaldamento per le legna da ardere che offrivano.
Era negativo il fatto che la coltura  dai cavalîrs avveniva in un periodo “caldo” per la campagna.”
La fienagione del primo taglio di erba medica, il più abbondante dell’anno ed il migliore anche per  la produzione di formaggio, i primi trattamenti alle viti cul verderam e solfar.
E poi la blave ed ancora tutti gli altri lavori di routine come il sapinâ, rarî, solçâ, ledrâ e seselâ la colze o raviçon, dovevano necessariamente, essere fatti in maggio, in perpetua lotta con la piovosità della nostra regione.
Il  baco   portava  i   primi  guadagni  dell’anno alle  povere famiglie   contadine  che  si “ossigenavano” un po’ per le spese di gestione,  dando anche  una magra “soddisfazione” per il mese più faticoso dell’anno.
Mi spiace vedere che, dopo secoli di coltura che caratterizzava la nostra terra, la prima vittima del benessere è stato proprio lui, il cavalîr quello che, tra l’altro, era una pietra miliare per i nuovi amori:          
“…si son impromitûs sui cavalîrs e si son sposâts te vendemis!”

…omissis…

Come accennato all’inizio, in maggio le processioni delle Rogazioni si facevano nei tre giorni precedenti  l’Ascensione, che era una giornata veramente particolare...

” Se al  plûf il dì de Sense,
 par quarànte dîs no si sta cence”

 

“Se la Sense e mole une ploiade,
 dute la stagjon e va fûr stràde”

 

Se al plûf il dì de Asension,
al mancjarà il pan a golezion”.

Questi proverbi nascono da una credenza secondo la quale il buon Dio, se i friulani non fossero stati buoni e pii, avrebbe fatto piovere il giorno dell’Ascensione, mettendo a repentaglio, così, tutta la produzione dei campi.
Ma, poiché i nostri vecchi non si sentivano in grado di mantenere tale promessa per tutto l’anno, arrivarono ad un compromesso: pulire la chiesa parrocchiale, le statue dei santi  la dì de Sense.
E per non far piovere in quel giorno, i nostri vons  lo trascorrevano riempiendo le chiese armati di....ramazza !
C'era, poi, legata a questa ricorrenza, un'altra convinzione che prendeva in considerazione i gatti. Quelli che nascevano dopo l’Ascensione erano ritenuti deboli e malati di dissenteria. E così le povere bestie, appena nate, venivano soppresse perché non “sporcassero”  ovunque.
In ogni caso, però, a maggio:


“Tornin lis rosis, il cîl seren e net
e sot e sore tiere il mont al è
dut cuiet”