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di Magda Minotti

Testo e disegni di
Magda Minotti

SETTEMBRE:

IL SAMBUCO

 

       Torna settembre, mese ricco di ”doni”, e con loro giunge la fine della stagione produttiva.
Sta arrivando l’autunno, la Sierade, tempo di un andar alla ricerca degli ultimi preziosi frutti nascosti tra le foglie che stanno per lasciarsi andare…
Già in periferia delle città il nostro occhio cade su  una gran quantità di belle bacche nero-violacee o scarlatte, raccolte ad ombrella, che guardiamo con sospetto.
Ė il loro colore che ci fa paura.
La modernità ci ha disabituati a guardarci intorno, a conoscere e a godere di quanto la natura ci offre spontaneamente.
Quelle bacche così abbondanti che non raccoglieremmo mai, sono i carnosi frutti del sambuco (1) le cui piante fanno da siepe separatrice di campi, o crescono lungo le strade di campagna dove la decomposizione delle foglie e dei rifiuti arricchiscono d’azoto il terreno.
Spesso questi arbusti vegetano anche fra i ruderi, quasi a rilevare la capacità di adattarsi a vivere in ogni luogo. 
Ciò, un tempo, valorizzava ancor più la credenza che questa pianta così vigorosa, alta, ramificata ma armoniosa, potesse tenere lontane serpi e rettili (2) e proteggesse persone, animali e cose dai mali e dalle malìe, tanto temute da tutti.
Questa credenza, così radicata e presente in gran parte dell’Europa, fece sì che questa pianta, pur se infestante, fosse piantata non solo attorno alle case, ma persino presso i monasteri e attorno alle fortezze.
Quest’alone magico era ancora presente sino agli anni del secondo dopoguerra quando mia nonna, None Sunte, ci diceva che un ramoscello di sambuco, svuotato e tagliato in un luogo dove non poteva mai essere sentito il canto del gallo, sarebbe divenuto un flauto magico capace di allontanare, al bisogno, ogni striament.

Ricordo che noi bimbe cercavamo invano un luogo con questa caratteristica. In campagna era impossibile trovarlo e, di conseguenza, possedere un flauto fatato. S’impossessava di noi l’invidia per chi viveva in città,   dove non c’erano i galli… Ma non avevamo ancora capito che il saût, per quanto fosse una pianta adattabile, non poteva crescere tra palazzi ed automobili.

La tradizione, poi, voleva che, con un sambuco vicino casa, le mosche non vi sarebbero mai entrate. Tale convinzione persisteva, nonostante dal piatto lampadario della cucina di campagna pendesse l’immancabile striscia adesiva piena di mosche invischiate e in qualche angolo dell’abitazione vi fosse, alla fine della seconda guerra mondiale, pronta per l’uso, la macchinetta del Flit. (3)

         L’alone magico che accompagnava il sambuco era senza tempo e non si esauriva finiva qui.             

Il sambuco, così come ci ricordavano le nostre nonne era, fin dall’antichità, una pianta dai mille poteri:


"Il Saût al da la salût.
Buine la fuee, la scusse e la pomule,
in gran e in flôr"
(4)

Nel XIII secolo, si pensava che la sua corteccia, i suoi frutti e le sue foglie cambiassero leloro proprietà curative, secondo come fossero stati strappati. Facendolo dall’alto verso il  basso, avrebbero avuto effetto lassativo, se dal basso verso l’alto, sarebbero stati vomitativi.
I vons usavano le foglie, applicate rigorosamente con la pagina inferiore, per lenire i dolori di schiena, mentre quelli alle mani sarebbero di certo diminuiti indossando, per tutta la notte, guanti imbottiti di foglie fresche.
Il sambuco era considerato la “farmacia degli dei” e, se i nostri nonni, passandogli vicino,   si toglievano il cappello e le donne s’inginocchiavano, i contadini tirolesi s’inchinavano davanti a lui ben sette volte.
Sette, infatti, erano i doni che si potevano ricavare dai suoi germogli, dai fiori, dalle foglie, dal midollo, dalla corteccia, dalle bacche settembrine e dalle radici.
Ma il sambuco offriva ed offre doni non solo per la cura del corpo, ma anche per il piacere della gola.
Ė, infatti, usato anche nella nostra cucina tradizionale, così come lo utilizzavano le nostre nonne, abili cuoche, che con ricette semplici ma gustose facevano lis fritulis, le frittelle con i fiori, il sirop di pomulis, il delizioso sciroppo con le bacche che usavano anche per fare il vino, il vin di pomulis,   la marmellata e la gelatina.
Tutte vere delizie per il palato di grandi e piccini.
E a questi ultimi, se maschi, il sambuco serviva a fabbricarsi giochi, svuotando del midollo, i rami più dritti del sambuco.
Ecco i sivilots, i fischietti con cui, spesso, cercavano di imparare la melodia delle villotte o ad imitare il canto degli uccelli o ad infastidire gli adulti.

….

Cul sivilot di scusse
senze bisugn di notis
compagnarai vilotis
al par d’ogni pastor.
…. Pietro Zorutti

Ecco ora quelli che scherzosamente chiamati  scoppietti, venivano usati  per  giocare alla guerra.
Erano una specie di cerbottana, i scliçot,   le cui munizioni, le bacche verdi della pianta o l’acqua schizzata da uno stantuffo, fuoriuscendo, facevano un rumore che “ricordava” quello delle armi da fuoco.

AI ûl saût par fâ scliçots ! (5)
(proverbio popolare)

Di certo i bimbi non comprendevano il doppio   valore della parola saût, che significa sambuco, ma anche saputo né, tanto meno,   capivano che questa frase sottolineava la necessità che per fare per fare bene qualunque cosa, per quanto semplice sia, è necessario usare intelligenza e abilità.
Le femminucce,   affascinate dall’alone magico del sambuco, raccoglievano le bacche, semplicemente per farne…un inchiostro da fate, mentre e con il midollo, una materia morbida e bianca, si divertivano a fare figurine o animaletti.
Ma non è finita qui!
Il legno delle sue radici, ci raccontava ancora la nonna per sottolineare maggiormente la poliedrica utilità di questa pianta, era usato per fare gli stetoscopi dei medici. Noi bimbe, di conseguenza, usavamo pezzetti di ramo per “sentire” se le nostre bambole avevano la bronchite o la polmonite…

Ma torniamo alla cucina  dello chef Matteo Depetris del ristorante “Nove castelli”  di Faedis che valorizza  questa pianta come magico ingrediente di una ricetta che offre, sposando frutti autunnali, il piacere al nostro palato moderno.

 

PETTO D’ANATRA

con bacche di sambuco

e mele

 

Incidere la pelle dei petti d’anatra, che faremo ben rosolare in olio extravergine d’oliva.
Salare, pepare (possibilmente con pepe di Caienna bianco, macinato al momento) e aggiungere le mele sbucciate e tagliate a tocchetti che, poi, schiacceremo con la forchetta.
Unire le bacche mature di sambuco e un po’ di buon vino rosso che faremo evaporare fino ad ottenere una densa crema che “abbracci” i petti dell’anatra.
Aggiustare, se necessario, di sale e pepe.
Servire con Cabernet Riserva.

 

Note:

(1) =    il sambuco è il primo arbusto a germogliare e mantiene le sue bacche fino a   dicembre avanzato;
(2) =    negli orti usavano conficcare alcuni rametti di saût certi che avrebbero tenuto lontano i ramarri, i sborfs,
(3) = “Ammazza la mosca col flit” è la versione italiana di un motivetto molto famoso negli USA, ovvero Shave and a Haircut, Two Bits, quando fu utilizzato per pubblicizzare il Flit, ovvero il DDT. Delle parole esistono numerose variazioni, dalla più comune “Ammazza la vecchia col flit” (alla quale si risponde “e se non muore… col gas!”) a molte interpretazioni dialettali.
(4) =    traduzione:
           “Il sambuco dà la salute. Buona la foglia, la corteccia e la bacca, in grani e in fiore”,
(5) =    traduzione:
“Ci vuole il sambuco per far gli  scoppietti!”, ma anche ”Ci vuol capacità per far scoppietti!”.

Bibliografia:

  • Alfredo CATTABIANI “ Florario”- saggi Mondatori 2005
  • Wikipedia